Lo sport e la fotografia sono due mondi che viaggiano in parallelo, difficilmente infatti un’impresa sportiva non ha una foto che la rappresenta. Il noto sito americano Sportsillustrated.com ha voluto pubblicare una speciale classifica contenente le migliori 100 foto sportive di tutti i tempi. Davvero una bella iniziativa quella che permette di rivivere alcuni momenti storici dello sport mondiale attraverso un semplice scatto. Nella top 10 troviamo autentiche leggende dello sport vedi Muhammad Ali, è sua infatti la prima foto di questa speciale classifica, una foto (risalente al novembre del 1966) che lo ritrae con le braccia alzate mentre il suo avversario Cleveland ‘Big Cat’ Williams tramortiva al tappeto. Il pugile statunitense in quella occasione mando ko Williams nel terzo round conservando il titolo di campione del mondo dei pesi massimi.
Non poteva mancare in questa speciale rassegna di foto, il miglior atleta olimpico di tutti i tempi. Stiamo parlando dell’ex nuotatore americano Michael Phelps, ritiratosi dopo le recenti Olimpiadi di Londra 2012. Nessuno mai come lui, vincitore di ben 22 medaglie olimpiche (18 d’oro). La foto che rappresenta lo squalo di Baltimora risale alle Olimpiadi di Pechino 2008, in particolare il fotofinish della finale dei 100 metri farfalla vinta dall’americano per 1 solo centesimo di secondo. Vittoria che valse a Phelps la settima delle otto medaglie d’oro conquistate in quella edizione dei Giochi Olimpici, record assoluto di medaglie d’oro vinte nella stessa edizione.
La top 10 si chiude con una foto storica, che ritrae l’incontro ravvicinato tra Mike Tyson ed Evander Holyfield. Incontro passato alla storia per il morso con il quale Tyson staccò un pezzo di cartilagine dall’orecchio di Holyfield, che poi vinse l’incontro per squalifica. Questo episodio, senza precedenti nella storia della boxe, costò tra l’altro a Tyson la revoca della licenza di pugile per un anno. La classifica stilata da Sports Illustrated con le migliori 100 foto sportive di tutti i tempi è consultabile integralmente qui
Apertura in grande stile per le Olimpiadi di Londra 2012, il regista premio Oscar Danny Boyle ha ricostruito la storia dell’Inghilterra in un viaggio scenografico che ha conquistato gli 80mila presenti all’Olympic Park tra cui anche molti capi di Stato come Napolitano, Michelle Obama in rappresentanza del marito Barack, Medvedev, Il Principe di Monaco e tanti altri.
Al campione del Tour de France, Bradley Wiggins, il compito di aprire le danze suonando un rintocco della campana più grande d’Europa e poi tutti a viaggiare con Boyle attraverso una lettura di un passaggio di “La Tempesta” di Shakespeare passando dall’Inghilterra bucolica alla rivoluzione industriale, la nascita delle acciaierie e grandi industrie fino all’Inghilterra dei nostri giorni.
Grande protagonista dello show anche la musica e non poteva essere altrimenti visto che l’Inghilterra è la patria di mostri sacri come Beatles, Rolling Stones, Sex Pistols, Queen, Clash, Who, giusto per nominarne alcuni, i loro brani hanno fatto da colonna sonora della lunga celebrazione d’apertura. Nel viaggio della cultura inglese non potevano mancare Mary Poppins, Harry Potter accompagnato dalla sua creatrice J. K. Rowling che per l’occasione ha eseguito una lettura da Peter Pan e Mister Beancon la sua esilarante comicità ha suonato “Momenti di Gloria” insieme alla Lodon Symphony Orchestra.
La cerimonia ha visto anche partecipare la Regina Elisabetta nelle vesti singolari di attrice nell’ interpretazione di sé stessa, accompagnata dalla bodyguard più famosa al mondo: l’agente 007, Craig David. Alla Regina il compito di dichiarare ufficialemente aperta la XXX° edizione dei Giochi Olimpici Odierni dopo l’ingresso allo Stadio dei veri protagonisti dell’evento, gli atleti. Apre la parata la Grecia come patria delle Olimpiadi e poi un’emozionata Arabia Saudita che per la prima volta è presente ai Giochi con due donne atlete, l’Italia, guidata da Valentina Vezzali, nel corteo vince la medaglia d’oro dell’eleganza, l’Israele che in risposta al no ricevuto dal CIO di ricordare le vittime di Monaco ’72 sfila con un fazzoletto nero nel taschino e, in chiusura, la Gran Bretagna, Nazione ospitante dei Giochi che sfila in completo bianco con rifiniture d’orate disegnato da Stella McCartney, figlia del famoso beatle a cui è stato affidato il compito di chiudere la cerimonia.
Emozione sul finale per la presenza di Cassius Clay, più noto come Muhammad Ali che a 70 anni con grande dignità e onore ha simbolicamente portato la bandiera coi cinque cerchi poi posta a sventolare sulla montagna che già aveva accolto le bandiere delle nazioni partecipanti. Gran finale a sorpresa per l’accensione del braciere olimpico: l’ultimo tedoforo, fino all’ultimo dall’identità celata, si è fatto in sette. Dopo aver ricevuto la fiaccola da un elengantissimo David Beckam, che a bordo di un motoscafo ha tagliato in due il Tamigi, la leggenda del canottaggio britannico Sir Steve Redgrave, ha consegnato la fiaccola a sette giovani promesse dello sport britannico scelti da altrettanti campioni nazionali; ognuno di loro con una fiaccola hanno acceso il tripode a forma di fiore che ha dato il via ai Giochi Olimpici.
Chiusura tutta per Sir Paul McCartney che dopo aver intonato “The End” ha coinvolto gli 80 mila presenti con “Hey Jude“, per lui è standing ovation e per Londra 2012 è davvero l’inizio.
“Un popolo può liberare se stesso, dalle sue gabbie e da animali elettrodomestici, ma all’avanguardia d’America dobbiamo fare dei sacrifici verso il cammino lento della piena libertà”: così Francesco Guccini in “Canzone per il Che”, riferendosi agli ideali rivoluzionari dell’isola cubana, avanguardia contro il capitalismo americano nella sua zona di massima influenza, nel suo “giardino di casa” come si suoleva dire nei lontani tempi della Guerra Fredda. Un ideale può abbracciare tanti aspetti della vita pubblica e privata e, nel caso dell’isola di Fidel Castro, tale aspetto ha sempre assunto un aspetto prioritario e profondo, al punto da intrecciarsi indissolubilmente con le vicende personali di uomini di spicco.
Uno di questi era proprio Teofilo Stevenson, pugile peso massimo cubano, vincitore di tre ori olimpici (Monaco 1972, Montreal 1976 e Mosca 1980) e di tre mondiali sempre fra il 1972 ed il 1986, scomparso oggi all’età di sessantanni, stroncato da un improvviso infarto. Fu uno dei migliori atleti della boxe dilettantistica cubana ma, soprattutto, un convinto sostenitore degli ideali rivoluzionari della sua isola, al punto da rifiutare l’offerta di cinque milioni di dollari del suo agente che avrebbe voluto organizzare un incontro fra lui e Muhammad Alì (al quale lo legava un rapporto di amicizia al punto da essere suo accompagnatore durante la visita di Alì a Cuba, ndr) e da decidere di non divenire mai uno sportivo professionista, in linea con i dettami del regime. Convinzioni profonde che lo portarono a motivare la sua scelta di restare uno sportivo dilettante con una frase che rimase alla storia: “Cos’è un milione in confronto all’amore di otto milioni di cubani?”
Probabilmente sarà difficile comprendere il reale senso che tale parole celavano, la reale convinzione che l’opposizione al sistema capitalistico – anche nei piccoli gesti della propria vita personale – potesse portare dei benefici comuni: “i problemi di coscienza interessano tanto quanto la piena perfezione di un risultato: lottiamo contro la miseria ma allo stesso tempo contro la sopraffazione”. Ancora frasi di Francesco Guccini che esprimono proprio quel punto di vista, che ha mosso uomini a compiere la rivoluzione ed a donarle ogni istante della loro vita, ogni pensiero, ogni energia.
Teofilo Stevenson ha mantenuto questa coerenza di pensiero e di azione per tutta la sua vita, anche dopo aver appeso i guantoni al chiodo, rimanendo sempre un uomo semplice, coerente alle sue origini contadine, rimasto umile nonostante l’amore viscerale che il suo paese gli ha sempre dimostrato, rimanendogli affezionato anche nel momento della sua difficoltà personale, quando fu arrestato dopo una violenta lite con il nuovo compagno della sua ex moglie: superò quella difficoltà con la forza d’animo dei grandi campioni, scegliendo di mettersi al servizio del suo popolo intraprendendo la carriera di allenatore del programma cubano di pugilato dilettantistico, condividendo la sua grande esperienza con i giovani, e divenendo per loro un maestro di pugilato e di vita, anche nel ruolo di vicepresidente della Federazione cubana di Boxe.
Non rimpianse mai la scelta di rimanere lontano dai circuiti dorati della boxe mondiale, rifiutando una vita agiata pur di restare sempre fedele al suo Fidel (e non è solo un gioco di parole): addio Stevenson, oggi è l’atto conclusivo, ma il suo ricordo rimarrà vivo a lungo per il suo popolo rendendolo immortale.
Uno dei più grandi pugili della storia della nobile arte ci lascia all’età di 60 anni, il cubano Teofilo Stevenson viene messo ko da un infarto, un avversario troppo forte anche per la sua immensa forza.
Grandissimo pugile che faceva della forza e dell’intelligenza sul quadrato del ring i suoi punti forti abbinati ad uno destro devastante. Mattatore ai giochi olimpici con tre ori consecutivi dal 1972 al 1980 (che potevano essere sicuramente quattro se non fosse per il boicottaggio di Cuba a Los Angeles 1984), viene da tutti unanimemente considerato come l’ultimo grande idealista dello sport internazionale.
Considerato dal mondo sportivo e non come uno degli ultimi rivoluzionari della storia cubana che considera lo sport professionistico illegale. Celebre fu infatti il suo rifiuto ad una borsa di quasi 5 milioni di dollari per entrare nel mondo professionistico della boxe e sfidare il grande Muhammad Ali. L’incontro non ci fu mai ed anzi, proprio Alì divenne grande amico di Stevenson condividendo sicuramente dei valori che ai giorni nostri sono decisamente lontani. Stevenson abbandonò la boxe dilettantistica di cui fu l’assoluto dominatore per oltre un ventennio nel 1986 diventando allenatore e poi vice presidente della Federazione cubana di boxe e decretando Felix Savon, tre volte olimpionico dei massimi come lui ai Giochi di Barcellona ’92, Atlanta ’96 e Sydney 2000, suo legittimo erede. Un record quello messo a segno da Stevenson nella sua lunghissima carriera da dilettante difficilmente eguagliabile con le sue 301 vittorie su 321 incontri.
Oltre che grandissimo sul ring, Teofilo Stevenson si è dimostrato unico anche nella vita normale, famosa infatti la frase del grande Teofilo che dichiarò testualmente ad un amico: “Cos’è un milione in confronto all’amore di otto milioni di cubani?” rinunciando di fatto a fare la storia anche nel pugilato c.d. dei grandi e ricevendo in premio dal leader maxismo Fidel Castro come ricompensa al celebre rifiuto, una casa.
Oggi 17 gennaio 2012 compie 70 anni uno dei personaggi più rappresentativi del nostro secolo, nonchè pluricampione dello sport che lo ha reso celebre al mondo e che grazie a lui ha avuto un notevole incremento a livello di popolarità: stiamo parlando del grande Muhammad Ali, il più forte pugile di tutti i tempi, anche noto come Cassius Clay, suo nome originale prima della conversione all’Islam che lo portò a cambiare nome (definito da schiavo da Ali stesso) scegliendone uno musulmano.
E’ diventato una leggenda grazie al suo carisma e al suo immenso talento che sin dalla giovane età di 12 anni lo avevano contraddistinto in quella palestra dove giorno e notte inseguiva il suo sogno, quello di diventare pugile professionista. A soli 18 anni, alle Olimpiadi di Roma del 1960 vinse l’oro nella categoria dei pesi mediomassimi, e da lì è cominciata la sua interminabile ascesa, fatta anche di momenti meno felici, come il rifiuto di combattere in Vietnam e ciò gli costò il ritiro della licenza da parte delle commissioni atletiche pugilistiche statunitensi.
Tornando alla sua carriera di pugile, egli divenne subito professionista dopo il trionfo alle Olimpiadi e battè prima Lamar Clark e poi DougJones: il mondo della boxe si apprestava ad accogliere un giovane fenomeno che portò notevole apprezzamento di questo sport da parte di un pubblico via via sempre numeroso, ed è per questo che a cavallo degli anni 60′-70′ il pugilato raggiunse l’apice della popolarità. A soli 22 anni il giovane Cassius affrontava il temibile Sonny Liston, nonchè campione in carica dei pesi massimi. A Miami Clay divenne Campione del Mondo dei pesi massimi battendo all’inizio dell’ottava ripresa il favoritissimo Liston. Comunque questo incontro portò degli strascichi notevoli nel tempo, dovute alle dichiarazioni dell’agente di Liston che sarebbe stato d’accordo con la mafia per truccare il match concedendo a Cassius Clay il titolo di Campione e alla mafia di incassare ingenti somme di denaro sullo sfavorito pugile di Louisville. Tuttavia recentemente Ali si è difeso dichiarando di aver colpito con forza e tecnica il suo avversario, e che se davvero il rivale avesse voluto fingere un KO non l’avrebbe fatto di certo all’inizio dell’incontro.
La figura di “The Greatest” divenne un’icona mondiale e un modello per i giovani nonostante il suo comportamento provocatorio e aggressivo (soprattutto in conferenza stampa), peculiarità questa che ha contribuito a formare quel grandioso personaggio non solo della boxe mondiale, ma anche uno dei più popolari a livello mediatico. Tra i numerosi incontri memorabile è quello di Kinshasa del 30 ottobre 1974 dove affrontò George Foreman mandandolo al tappeto e riconquistando così il titolo mondiale. Ali in questo incontro usò una tattica rivelatasi efficace: si fece colpire ripetutamente per 8 riprese dallo stesso Foreman per farlo stancare per poi contrattaccare quando l’avversario fosse giunto allo stremo delle forze. Vittoria rimasta nella storia, come quella di Manila contro Frazier, dove i due pugili combatterono con grande veemenza e con grande atletismo: alla fine la spuntò proprio Ali dopo che l’allenatore di Frazier all’inizio dell’ultima ripresa ritirò il suo atleta, completamente massacrato dai colpi ricevuti. Muhammad Ali riconobbe i meriti dell’avversario affermando che probabilmente se non si fosse ritirato avrebbe potuto dare forfait durante il round per i colpi subiti, segno che il duello non aveva risparmiato nessuno dei due. Con il trascorrere del tempo Ali divenne sempre meno rapido nei movimenti e raramente ottene vittorie schiaccianti, ottenendo risultati particolarmente deludenti.
Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson, con cui tutt’oggi convive, ma questo non gli ha impedito di partecipare ai funerali del suo grande amico rivale Joe Frazier e di distinguersi per le sue opere umanitarie nonostante abbia condotto una vita lontana dai riflettori e dal flash dei fotografi. Auguri Campione!
Uno dei pugili più grandi della storia della nobile arte ci ha lasciati per sempre, Joe Frazier è morto all’età di 67 anni per un cancro al fegato uno dei pochi avversari che è riuscito a metterlo ko, purtroppo per sempre. Indimenticabile pugile degli anni 60’ e 70’ quando ancora la boxe conservava saldi i suoi principi di sport duro e nobile prima di lasciarsi travolgere dallo show business americano, vera causa del suo declino odierno. Il suo soprannome, “Smokin Joe” nacque dal suo tecnico che prima di ogni incontro invitava Frazier a far “fumare” i guantoni contro il suo avversario. Uno degli ultimi pugili c.d. Normali non dotato di un grande fisico ma che faceva comunque della potenza dei colpi, la sua arma più devastante. A piangere il grande Joe è proprio uno, se non il suo rivale più ostico, quel Muhammad Ali con cui Frazier scrisse pagine epiche della storia della boxe. Fu proprio Frazier il primo a battere Ali ai punti nel 1971 al Madison Squadre Garden di New York, per decisione unanime dopo 15 round leggendari, in quello che allora fu definito il “match del secolo”. Ali si prese la rivincita tre anni dopo, sempre ai punti ma dopo 12 round, prima di aggiudicarsi anche la “bella” a Manila nelle Filippine al termine del 14° round, in un altro match mondiale ormai entrato nella storia della boxe. Da professionista “Smokin Joe” ha sostenuto 37 incontri, vincendone 32 (27 prima del limite), perdendone 4 e pareggiandone uno. Per tre anni (1967, 1970 e 1971) è stato proclamato “pugile dell’anno” dalla rivista americana Ring Magazine. Lascia 11 figli, tre dei quali, due maschi e una femmina, hanno cercato di ripercorrere le sue orme sul ring con risultati, ovviamente, nemmeno paragonabili all’illustre padre.
Sono passati 35 anni da quel 1 Ottobre 1975 che segnò una data storica nel mondo del pugilato: in quel giorno, infatti, venne disputato uno dei più importanti match nella storia della disciplina, per alcuni il più importante in assoluto, il “Thrilla in Manila” tra Joe Frazier e Muhammad Alì, il terzo incontro-scontro tra i due.
I due più grandi pesi massimi della storia della noble art (insieme a Rocky Marciano, imbattuto campione del mondo dei pesi massimi di origini italiane), diedero vita ad un match cruento e spettacolare un anno dopo un altro incontro che ha indelebilmente segnato la storia di questo sport, il “Rumble in jungle” di Kinshasa tra lo stesso Alì e George Foreman (vittoria di Alì contro i pronostici).
La battaglia di Manila tra due ori olimpici (Foreman a Tokyo ed Alì a Roma), venne definita “quanto più vicino alla morte “ nella carriera dei due grandissimi pugili, diversi in tutto ma uguali nella grandezza. Quindici riprese di sangue e cazzotti, quindici riprese di lotta e sudore. Vinse Alì e mise un altro mattone alla costruzione della sua imperitura leggenda.